lunedì 17 marzo 2014

ALCUNE DOMANDE A GIACOMO SARTORI

 Vogliamo condividere alcune riflessioni emerse nel corso degli incontri nelle biblioteche, perché ci sembra che contribuiscano notevolmente alla comprensione profonda delle dinamiche di “Sacrificio”. Alcune domande sono state poste dai conduttori delle serate, altre sono emerse dal pubblico.
Abbiamo cercato di essere quanto più fedeli possibile al senso delle parole di Giacomo Sartori, anche se ci basiamo su appunti e non su una trascrizione fedele.
Giacomo ha detto che uno scrittore è prima di tutto un lettore: ci piace utilizzare questa frase come incipit di questo collage di risposte. Uno scrittore legge. Libri, naturalmente; ma anche la realtà che lo circonda, le persone che incontra e i sentimenti che prova.

Che legame c’è con la realtà trentina? Sono veramente così i giovani?

Un romanzo non riferisce la realtà, come ogni forma d’arte ne riporta alcune caratteristiche, la piega alle necessità espressive dello scrittore.
La scrittura che ha senso, non ha senso. La narrativa italiana è spesso molto convenzionale e raramente rompe gli schemi. Una scrittura “didattica” ed eccessivamente realistica diventa noiosa.
L’arte è lavoro, è fatica. E’ la ricerca di qualcosa che non esiste.

C’è nel romanzo una concentrazione di sofferenza: e la speranza? E le cose positive?

La violenza è proporzionale alla scorza con cui il Trentino si isola. E’ duro il testo, ma è dura anche la scorza con cui ho dovuto battermi. C’è un deciso contrasto tra la violenza esteriore e la levità dei sentimenti interiori dei personaggi. Ogni vita ha qualcosa di unico e inesprimibile. La vita ci vive.
La violenza non è mai fine a se stessa nei miei testi, ma è sempre strumentale alla comunicazione di qualcosa che mi sta a cuore. I personaggi vivono situazioni estreme nella loro intimità, fanno fatica a star dietro alla realtà. C’è un contrasto molto forte tra la durezza della situazione e l’interiorità dei personaggi.
La realtà è molto più violenta del romanzo, perché lla violenza della realtà è spesso gratuita.

Quali sono le caratteristiche fondamentali della trasposizione teatrale?

I miei testi sono sempre un lavoro a levare, a condensare la scrittura, a rendere minimale anche la punteggiatura. L’essenzialità estrema necessaria per il testo teatrale ha costituito una sfida entusiasmante. Il testo teatrale è molto vicino alla poesia, con la differenza che mentre uno scrittore padroneggia tutti i dettagli della propria opera, nel teatro il testo è solamente uno degli elementi che compongono la storia. Il libro esce come un prodotto finito, mentre a teatro il testo è solamente l’inizio di un processo che non è nelle mani dello scrittore.

Cosa hai provato nel vedere incarnati i tuoi personaggi?

Ho seguito alcuni provini e ho molto apprezzato l’atmosfera di impegno e l’essenzialità di una recitazione fuori da qualsiasi contesto. L’atmosfera surreale del palco nudo e dell’attore solitario mi ha affascinato: dal teatro semibuio, dal nulla, nasce l'epifania di qualcosa che si sta creando. L'attore non conosce quasi il testo ma sta creando.
Come scrittore avrei mantenuto questo fascino dell’indeterminato anche nella realizzazione finale del testo. Sento, o immagino, le mie parole in modo più astratto di quello che è uscito nel testo teatrale. Un testo più astratto, anche nella sua trasposizione fisica, permette di mantenere e rimarcare una maggiore distanza nei confronti del personaggio.

I tuoi personaggi spesso hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti e sono vittime di una sorta di afasia.

La lingua ci appartiene, ma non riesce mai a trasmettere la nostra unicità perché l’uso comune l’ha caricata di banalità che hanno intaccato la naturale profondità delle parole. A volte il dialetto riesce a esprimere meglio un concetto che in italiano risulta solo abbozzato.
Nel silenzio di noi stessi utilizziamo la nostra lingua per imbrigliare emozioni e sentimenti, difficilmente riusciamo a isolarci nel silenzio e ad ascoltare il nostro sé interiore. Le nostre parole non ci appagano mai al cento per cento. Ci sembra sempre che ci sia una parte di quello che vogliamo comunicare che resta sotterranea, non espressa.
Il nostro pensiero non ci appartiene. Il pensiero è un qualcosa di ossessivo, ripetitivo, che si forma in modo autonomo nella nostra mente ma che noi non possiamo controllare né indirizzare. Questo rende molto difficile, o forse impossibile, dare un nome, una definizione, al pensiero che ci sta attraversando, riconoscerlo e codificarlo. Tutto ciò è, naturalmente, molto frustrante per l'essere umano, che non è padrone della propria mente.
La parola caratterizza l'uomo. Ma questa possibilità di dare un nome ai pensieri e di poterli comunicare agli altri, è un atto faticosissimo.

“Sacrificio”: la vittima sacrificale è Diego, ma possiamo dire che tutti i protagonisti del tuo testo siano delle vittime.

Non dimentichiamo che nella parola “sacrificio” c’è il “sacro”. Sacro è ciò che non si capisce, che non si riesce a spiegare ma che ci impone un senso di riverenza. Il “sacro” è quel qualcosa che ci unisce, unisce tutti gli essere umani, perché ci travalica.
I personaggi del libro hanno un modo di vivere laico, nondimeno c'è qualcosa di spirituale in “Sacrificio”. La profondità, per definizione, è spirituale.

Ti hanno definito un “anatomopatologo dei sentimenti”. Si riconosce in questa definizione?

Direi più un anatomopatologo delle emozioni. I sentimenti sono qualcosa di più elaborato, complesso. Le emozioni sono ad uno stadio primordiale, sono più legate al corpo, all'immediatezza, all'urgenza. Io amo indagare questo, le emozioni. Mi definirei un autore dell'intimità.

Questo come caratterizza la tua scrittura?

Scrivo in terza persona. Ma è una terza persona vicina alla prima persona, che si porta dietro lo sguardo della prima persona, in questo caso di Marta. Mi piace lo sguardo soggettivo del personaggio. Infatti, la prima cosa che faccio è pensare un nome per il personaggio, un nome per me evocativo, in qualche modo.

Collage di interviste a cura di:
Maira Forti e Federica Dallapria

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